Reporting
Aspettando la pioggia
La penisola Guajira è uno dei trentadue dipartimenti colombiani; con le sue 3.000 ore di sole all’anno e i suoi venti costanti del nord è sicuramente più noto per le spiagge selvagge e per le tartarughe marine, che per il suo potenziale energetico. Eppure il valore delle sue esportazioni di combustibili fossili indica un dato economico degno di un interesse più approfondito di quello dei turisti in caccia di borse colorate tessute a mano dalle native della regione. Native indigene come lo è il 98% degli abitanti, di cui 270.000 appartengono all’etnia wayuu, uno dei gruppi più interessanti della famiglia indo-americana, ed il maggiore di tutto il paese.
I Wayuu, presenti sul territorio da oltre 10.000 anni, provvisti di una cosmogonia fatta di elaborazioni simboliche (la calma, il vento, la luna, il tempo), sono un popolo resiliente, che a dispetto dei tentativi violenti di colonizzazione, ha mantenuto tradizioni e la propria lingua: il Wayuunaiki. Sparsi in piccoli villaggi dislocati su un territorio di 15.000 km di superficie sabbiosa, sono fin qui vissuti di pastorizia, pesca, e di una vegetazione rada, che garantiva loro una precaria sussistenza.
Grazie a sofisticate tecniche ancestrali come scavare “jagüeyes” (pozzi per raccogliere le piogge), canalizzare l’acqua dei fiumi, costruire case “antisismiche” con tetti di corteccia di cactus e pareti di fango , i Wayuu nel tempo conquistarono questa zona desertica.
Ma il “progresso” avanzava. L’industria mineraria cominciò a crescere a partire dagli anni ’70, quando inizió lo sfruttamento delle riserve di gas e di carbone del sottosuolo. Nel 1976 il governo colombiano firmò un accordo storico con la società transnazionale Intercor (oggi ExxonMobil) per sviluppare una delle più importanti operazioni minerarie di sempre, quella della montagna de El Cerrejón. Nel 2002 il governo cedette le proprie quote alle multinazionali BHP Billiton, Anglo American e Xstrata Glencore, costituitesi nel consorzio ” Carbones del Cerrejón Limited, Cerrejón “. Un territorio di 69.000 ettari, con i suoi abitanti, fu lasciato a un colosso energetico transnazionale.
Dopo 40 anni di attività, la miniera del Cerrejón, controllata 24 ore al giorno da più di 800 guardie armate, è diventata una zona off-limits. Un piccolo principato, con i suoi 12.000 dipendenti tra lavoratori interni e esterni, che faticano giorno e notte nei 42 hangar, su di un’area di 8.400 mq. Un quartier generale di polvere nera e macchine di dimensioni abnormi - con pneumatici di 4 metri di altezza e 100.000 $ di valore di mercato - che sembrano uscite da un film di fantascienza.
Camion, trattori, raschiatori, bulldozer, caterpillar; cingolati, autobotti per i liquidi, gru semoventi, scavatori, traforatrici, autocarri a cassoni ribaltabili con capacità di 320 tonnellate. Ingombranti dinosauri di metallo, che con folli pulegge, pompe, rulli e pale, in tanti anni di attività hanno scavato montagne, inghiottito fiumi e sommerso interi villaggi di polvere, pur di raggiungere la cifra di esportazione annua di 33.700 tonnellate di carbone termico; che una volta lavato con 17 mila litri di acqua dolce al giorno, e trasportato attraverso una ferrovia di 150 chilometri a Puerto Bolivar, viene stivato in navi che salpano verso Europa, America e Asia.
La costruzione della ferrovia, tagliando il territorio, ha sconvolto i rapporti fra le diverse tribù, fratturando la forma di organizzazione sociale e le risorse della popolazione indigena e afro-colombiana. È vero che grandi cartelli segnalano il passaggio dei convogli ferroviari, ma come dicono le anziane indigene: “le capre non sanno leggere”, e finiscono travolte dai vagoni, mentre migliaia di particelle di polvere si disperdono nell’aria, oscurando il paesaggio.
NERO COME IL CARBONE
“E’ solo polvere, annerisce, ma è innocua”, ripeteno come un mantra i responsabili del Cerrejón durante le visite per giornalisti. Polvere nera e leggera come quella che seminano i camion che trasportano il carbone agli hangar, che i venti alisei del Nord, disperdono nell’ambiente in una pioggia costante di particelle sospese. Particulate Matter si chiamano, o PM10, e sono causa di numerose malattie respiratorie, problemi cardiovascolari e tumori polmonari : la silice cristallina è un agente cancerogeno.
I responsabili di “Carbones del Cerrejón” minimizzano, aggrappandosi ai limiti di legge, e affermando di avere un efficiente sistema di monitoraggio della qualità dell’aria ma si oppongono a test di società indipendenti, e non al loro servizio. E sebbene l’azienda cerchi di mitigare la situazione usando grandi quantità di acqua per ridurre le particelle generate con le estrazioni, si tratta di misure insufficienti per i lavoratori che compiono turni di 12 ore nella miniera. Come per le comunità circostanti per le quali, quella “polvere nera ed innocua” è diventata la causa di gravi malattie. Come la bronchite diagnosticata al piccolo Moisés figlio di Luz Angela Uriana Epiayù.
Luz è una donna di 28 anni che, insieme ai suoi cinque figli e il compagno, due cani smilzi e poche capre, vive nella piccola comunità Wayuu di Provincial, in una bella casa di mattoni di fango, a soli 1500 metri dal “Tajo la Puente”: un buco nero di polvere di 2 km, profondo più di 100 metri. Moisés ha gli occhi color mandorla, 6 anni e una serie di gravi problemi respiratori: “si stanca subito quando corre e ha bisogno di fermarsi perché non riesce a respirare”, dice la madre che, con il solo sostegno di un Collettivo di avvocati, sta portando avanti la sua battaglia. David, il più anziano, appena 11 anni, mostra le crepe profonde nelle pareti della capanna di argilla provocate dalle continue esplosioni, che gli fanno fischiare le orecchie tre volte al giorno.
“E’ il nostro terremoto delle 13.45: l’ora della prima esplosione della giornata”, racconta con il suo lessico da adulto e gli occhi grandi da bambino: “trema tutto, corriamo fuori per paura che ci cada il soffitto sulla testa, e una volta finito, torniamo a vedere quanti mattoni sono venuti giù, ma gli anni passano e la casa non sopporterà ancora a lungo”.
WATERGRABBING
Luz non è l’unica a combattere il progetto del “Tajo La Puente”; ha dalla sua gran parte della comunità, insorta dopo aver scoperto che i lavori di apertura della nuova zona di estrazione, avrebbero implicato la deviazione del Arroyo Bruno, che – secondo la compagnia, dovrebbe proteggere l’alveo del torrente, mentre, per i nativ i, mira a incrementare la produzione sfruttando le 40 milioni di tonnellate di carbone che riposano sotto il letto fluviale, molto in superficie, risultando così semplici da estrarre.
L’Arroyo Bruno è uno dei 45 bellissimi torrenti che sfociano nel fiume Rancheria, che la compagnia già aveva cercato di deviare qualche anno fa, provocando vive proteste. Ora, questo ennesimo progetto di deviazione di un corso d’acqua, avrebbe gravi conseguenze per la foresta tropicale e per le comunità, perché danneggiando l’alveo, e diminuendone il flusso, fomenterebbe la siccità. Ad agosto la Corte costituzionale ha deciso di rinviare l’inizio del progetto, ma sono misure provvisorie che non metteranno fine ai conflitti in un territorio semi-arido, in cui nonostante il consorzio minerario abbia già prosciugato 17 fonti d’acqua, continua impunito a godere del 70% delle riserve idriche, aggravando le conseguenze del cambio climatico.”Cerrejón LLC” infatti utilizza 25 litri di acqua al secondo del fiume Ranchería, mentre gli abitanti della regione hanno diritto solo a 0,7 litri al giorno a persona.
Lo stress idrico che in breve tempo incrementerà la domanda d’acqua, indica che se i governi continueranno a investire in energie fossili, dirigeranno il mondo verso un futuro in cui la rivalità per le risorse fondamentali diventerà sempre più disperata.
Oscure profezie -come quelle lanciate da Greenpeace nel suo rapporto The Great Water Grab- che nella Guajira sono già divenute realtà, fornendo un esempio di come considerare l’acqua esclusivamente nei termini di risorsa per le attività estrattive, ignorando la sua importanza ambientale e sociale, sia una forma di privatizzazione di beni comuni. L’acqua, l’aria, la terra, sono proprio i beni per i quali i leaders locali lottano, anche se minacciati dalle multinazionali, che sempre più spesso ricorrono a intimidazioni nei confronti di coloro che cercano di proteggere il proprio territorio dalla bulimia dell’industria mineraria. Secondo Global Witness almeno 200 ambientalisti lo scorso anno sono stati uccisi in 24 paesi: il 60% in America Latina, nell’inerzia dei governi, spesso complici. I Wayuu quest’anno si sono ribellati occupando i binari della ferrovia, per esigere che venga rispettata la propria autonomia e per risolvere la crisi della malnutrizione della Guajira, che potrebbe annientare definitivamente il loro popolo.
Fame, sete, siccità: parole che sembrano inappropriate nel 2017 in una regione che produce il 44,4 delle esportazioni di carbone del paese.
Eppure la malnutrizione peggiora, specie nell’Alta Guajira, dove la crisi offre scene surreali ai pochi arditi visitatori della zona, che mentre percorrono in 4×4 le strade sterrate del territorio Wayuu, si toppano con check-point improvvisati con un filo di spago, dove bambini malnutriti e disidratati, tengono in ostaggio i foranei, fino ad ottenere qualche caramella.
Mentre nella Media e Bassa Guajira a causa della contaminazione delle acque, i nativi sono costretti ad abbandonare i villaggi, accettando -in cambio di misere compensazioni- di reinsediarsi in luoghi senza anima, né fonti d’acqua dove la cultura ancestrale viene annullata e dove gli indios ubriachi di disdetta, trascorrono le giornate sotto il solleone aspettando invano la pioggia.
VIVERE NEL DESERTO
In Wayuunaiki, pioggia si dice “Juya”; parola che può significare anche “anno” -inteso come il tempo che intercorre tra una pioggia e l’altra. Ma come vengono calcolati gli anni se non piove più? Il significato originario della parola Wayuu è “figli della pioggia”, ma negli ultimi cinque anni, dal cielo è caduta caduta pochissima d’acqua. E quando piove, non sono precipitazioni normali, ma cicloni che sferzano violentemente lande desolate, inondando le coltivazioni e dissestando il territorio.
Nei villaggi dove il vento caldo soffia senza sosta tra i rami secchi e il sole incendia l’aria, donne avvolte in tessuti dai colori vivaci, raccontano con la calma di chi calcola il tempo in altro modo, storie di desolante quotidianità: impianti di potabilizzazione rotti, mulini a vento avariati, cisterne che non arrivano, e sete, fame, disoccupazione, povertà, corruzione, inquinamento, malattie respiratorie e della pelle… Nenie che altro non sono che conseguenze di quella che non è che una un’operazione di gigantesca privatizzazione, da parte di un governo miope, che in nome dello “sviluppo” ha avuto l’idea poco originale di sacrificare il territorio e i suoi abitanti, con enormi profitti per le corporation e scarsissimi benefici per il paese. Infatti solo il 10% dei profitti viene utilizzato in Colombia, e l’1% in Guajira. Il “Cerrejón LLC”, in 40 anni di saccheggio o “concessione” - a seconda di chi descrive il processo - oltre al genocidio culturale dei popoli in questione, ha causato effetti ambientali devastanti.
I Wayuu hanno dovuto adattarsi a misurare gli anni tra cicloni e anticicloni; a calcolare i propri orari, non più sulla base al levarsi del sole, o l’arrivo del vento, ma in base al passaggio dei treni, alle ore delle esplosioni e a gestire concetti quali “produzione”, “esportazioni”, “manodopera”, e cambio climatico. Il 2017 è stato un annus horribilis tra incendi, disgelo dei ghiacci, inondazioni catastrofiche che hanno provocato migliaia di sfollati, vittime sacrificali delle nostre dipendenze energetiche.
Anticamente l’uomo era in grado di sopravvivere con quel poco che aveva, e le popolazioni indigene ancora radicate nella regione sono lì, pronte a mostrarci come l’unico modo di adattarsi ai cambiamenti ambientali, passi attraverso la “comprensione” del territorio; invertendo il paradigma secondo il quale esclusivamente noi occidentali abbiamo sempre le risposte, quello che dovremmo fare, probabilmente sarebbe invece porci delle domande, e sederci sulle rive del fiume e imparando da loro a convivere con la natura.
© Eloisa d’Orsi, 2017.
Un ringraziamento a Luz Angela Uriana e la sua famiglia, al leader di Chancleta Wilman Palmezano Arregocés, Jackeline e Jasmine Romero Epiayù di, “Fuerza Mujeres Wayuu“, CENSAT Agua Viva, Emma Banks, Avi Chomsky, Annabel Micus del ” Colectivo de abogados”, Louise Winstanley di ABColombia, CINEP, Richard Solly, Peter Drury e Stephan Suhner di ASK (Arbeitsgruppe Schweiz-Kolumbien) e Oliver Balch e Juanita Isla di IWMF.