Reporting
Honduras, l’inferno è in America Latina
Appena atterrata a Tegucigalpa accendo il cellulare e trovo un messaggio: “Felix Molina non la può incontrare perché è stato gambizzato e ora si trova in ospedale”. Lo avevo contattato prima di partire per l’Honduras: Molina è uno dei pochi giornalisti che non ha mai smesso di denunciare la feroce repressione in corso da sette anni contro attivisti per i diritti umani, ecologisti, campesinos, oppositori politici e popolazioni indigene.
Anche la libertà di stampa, già debole, è stata seppellita il 28 giugno del 2009. Data in cui un colpo di Stato militare, ordinato dalla Corte Suprema, ha costretto l’allora presidente Manuel Zelaya, sotto la minaccia delle armi, a uscire dal letto nel cuore della notte e, ancora in pigiama, a salire su un elicottero per il vicino Costarica, da dove avrebbe fatto ritorno in Honduras due anni dopo. Ma anche in quel tragico frangente le telecamere dei media internazionali inquadrarono questo paese del Centro America – da sempre sotto il controllo degli Stati Uniti, a maggior ragione oggi che alla Casa Bianca siede Donald Trump – giusto il tempo di dare la notizia. Degli scontri tra popolazione e militari, delle sparizioni forzate, degli omicidi politici, delle lotte per il diritto alla terra, che iniziarono o ripresero da quella notte, ne riferirono in pochi.