Reporting
L’annessione silenziosa
Un reportage dalla Bielorussia, dove l’autoritarismo di Lukashenko produce repressione, esilio, torture. Con il sostegno decisivo di Putin
Marina ha trentatré anni, una doppia laurea in economia e ingegneria, tre gatti e un marito. È originaria di un paesino vicino Minsk, in Bielorussia, e lavora come IT manager. Mentre parla di tutte le prove a cui è stata sottoposta nell’ultimo anno e mezzo, di tanto in tanto, scoppia in una risata esterrefatta. È come se, ancora oggi, non riuscisse a credere che l’interminabile catena di eventi innescati dalle elezioni dell’agosto 2020 nel suo paese abbia travolto anche lei. «Ero felice, senza paura, piena di speranze», dice. «Sono così invecchiata».
Da allora Marina è stata arrestata due volte, picchiata ripetutamente dalle forze armate del regime bielorusso, è stata messa sotto sorveglianza, accusata di atti terroristici, minacciata dal Kgb. Come migliaia di suoi connazionali è stata costretta a fuggire in Ucraina e, nell’ultimo mese, obbligata a scappare di nuovo, questa volta in Polonia. Oggi, nell’appartamento di fortuna trovato in fretta e furia, a Cracovia, a tre ore dal confine, ospita due rifugiati di guerra. E, mentre in tv osserva le bombe russe sventrare le strade familiari di un paese in cui ha vissuto fino all’altro giorno, il primo pensiero è che il suo governo è l’alleato numero uno di questa guerra. Perché, nell’ultimo anno e mezzo, la Bielorussia è anche diventata una sorta di stato vassallo di Mosca.
Oltre a essere tra le uniche nazioni al mondo, insieme a Nord Corea, Eritrea e Siria ad aver votato contro la risoluzione Onu di condanna dell’invasione russa, la Bielorussia, o meglio, il presidente Aleksandr Lukashenko, ha anche permesso a Putin di schierare almeno 30mila soldati nel sud del paese, a circa 260 Km da Kiev.
«Le persone in Ucraina penseranno che noi siamo il nemico», riflette Marina. Non ha tutti i torti. In alcune comunità nell’est Europa, l’ostilità nei confronti dei cittadini bielorussi inizia a farsi sentire. Anche in Lituania, dove sono scappati in migliaia dopo la rielezione di Lukashenko, insieme ai cartelli di sostegno all’Ucraina, sulle vetrine di qualche bar, hanno anche iniziato a comparire degli avvertimenti: «Vietato l’ingresso a russi e bielorussi».
In una guerra dai contorni così netti, ricordare che Lukashenko, è riuscito a restare al potere attraverso elezioni truccate e la conseguente violentissima repressione di chiunque, come Marina, avesse provato a protestare, è un esercizio che per molti non risulta immediato. Eppure, meno di due anni fa, nella prima estate pandemica, i media occidentali avevano proiettato sulla Bielorussia e sulle sue elezioni presidenziali la propria attenzione. Le foto delle tre giovani donne fiduciose e sorridenti che avevano osato sfidare alle urne Lukashenko, spesso definito «l’ultimo dittatore d’Europa», avevano fatto il giro del mondo, catalizzando il desiderio di molti di leggere, finalmente, una parabola di speranza.
Il 9 agosto 2020, quando Lukashenko aveva dichiarato vittoria, annunciando le sua sesta legislatura, decine di migliaia di cittadini bielorussi erano scesi in piazza per protestare pacificamente contro i brogli elettorali. Non sapevano che sarebbero stati vittime della più violenta repressione nella storia recente del paese: decine di migliaia di persone sono state arrestate, torturate, costrette a scappare. Quando l’Europa e gli Stati uniti avevano condannato la sistematica violazioni dei diritti umani, imponendo una serie di sanzioni al regime, Putin era arrivato in soccorso di Lukashenko, offrendo forze armate per reprimere il movimento pro-democratico e finanziamenti per contrastare le sanzioni.
La rivista americana The Atlantic ha definito la strategia di Putin in Bielorussia, «l’annessione silenziosa di cui nessuno parla». Putin ha fatto di tutto per Lukashenko dopo la rivoluzione e adesso per Lukashenko è arrivato il momento di pagare», spiega Marina.
Secondo lei e secondo molti analisti, per capire come mai Lukashenko abbia virtualmente consegnato a Putin le chiavi della Bielorussia, bisogna tornare indietro di qualche decennio e poi soffermarsi sull’agosto del 2020 e sulla devastazione dei diritti umani nel paese.
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Eletto presidente nel 1994, in quelle che sarebbero state le prime e ultime elezioni libere in Bielorussia, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, Lukashenko non aveva perso tempo, iniziando subito a spingere per una nuova costituzione che gli garantisse pieni poteri. Negli anni è riuscito a ottenere il controllo della polizia, dell’esercito, del parlamento e dell’intero apparato giudiziario.
Nostalgico dell’Urss – non a caso la polizia segreta bielorussa ancora oggi si chiama Kgb – nel 1996 Lukashenko aveva stipulato un accordo con l’allora presidente russo Boris Yeltsin per costruire una Comunità della Russia e della Bielorussia, con l’obiettivo di coordinare le rispettive politiche economiche ed estere. Tre anni dopo, nel 1999, Lukashenko e Yeltsin avevano fatto il passo successivo, firmando un trattato che avrebbe dovuto portare alla creazione di uno «Stato dell’Unione di Russia e Bielorussia», un modello federale che prevedeva l’unione monetaria, politica e militare. Negli anni Novanta, i due paesi avevano anche raggiunto accordi importanti sulle forniture di gas e petrolio, contribuendo a stabilizzare l’economia della Bielorussia. Mosca aveva accettato di offrire a Minsk un accesso a queste risorse a prezzi scontati, permettendone inoltre la rivendita a prezzi di mercato.
Consapevole dello squilibrio tra i due paesi (la Bielorussia ha poco più di 9 milioni di abitanti, contro i 144 milioni della Russia) e del rischio di essere inglobato, Lukashenko però aveva ripetutamente frenato la concretizzazione dell’Unione, cercando altre intese internazionali. Per decenni Lukashenko ha guardato a Mosca, strizzando l’occhio a Bruxelles, cercando il sostegno economico della Russia ma mostrando segnali di tiepida apertura verso l’Europa nel tentativo di proteggersi dalle ambizioni di annessione di Putin. «Era il metodo di sopravvivenza di Lukashenko», spiega David Marples, professore di Storia della Russia e dell’Europa Orientale all’Università di Alberta. «E l’Europa ci aveva creduto, aveva iniziato un dialogo con il regime, ignorando le violazioni dei diritti umani nel paese»,” continua Marples.
All’indomani delle elezioni presidenziali dell’agosto 2020, il pugno di ferro di Lukashenko aveva iniziato a tremare. Una serie di recessioni avevano scosso la Bielorussia, l’ultima nel 2019, quando Mosca aveva diminuito i sussidi energetici a Minsk: una ritorsione di Putin davanti all’esitazione di Lukashenko di rafforzare l’unione formale tra i due paesi. «La qualità della vita era diminuita notevolmente», spiega Marples. Poi è arrivato il Covid e, come molti altri leader autoritari, Lukashenko aveva negato la minaccia sostenendo che la pandemia non fosse altro che una psicosi. «L’intera situazione aveva davvero fatto arrabbiare la popolazione», continua Marples. «È stata l’elezione di gran lunga più difficile per lui».
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Secondo Kanstantsin Dzehtsiarou, professore di Diritti umani all’Università di Liverpool e originario della Bielorussia, per molti anni, nel paese, erano co-esistite due realtà parallele: quella della classe media, che riusciva a vivere in un modo relativamente confortevole, astenendosi dall’impegno civile, e quella degli attivisti per i diritti umani e dei dissidenti. Nella primavera 2020, queste due realtà si erano avvicinate: anche chi non aveva mai preso parte alla vita politica aveva sentito che quello poteva essere il momento giusto per cominciare.
Marina aveva seguito i primi mesi della campagna elettorale dall’estero. Quando la pandemia era scoppiata e, a marzo 2020, diversi paesi avevano iniziato a chiudere le frontiere, lei e il marito si trovavano in Asia, nel mezzo di un viaggio zaino in spalla organizzato da tempo. Marina viene da una famiglia contraria al regime, suo padre nutriva speranze democratiche ma, come molti altri, lei e i suoi genitori erano riusciti a ritagliarsi una vita tranquilla tenendo per sé le proprie idee sul presidente. Dopo l’università, Marina aveva trovato un lavoro nel settore IT, in grande crescita nel paese. «Avevo una vita più o meno normale», racconta. Viveva in un appartamento nel centro di Minsk e amava viaggiare. «Siamo rimasti bloccati due mesi in Malesia», ricorda. «Ma su Telegram, avevamo visto che iniziava a esserci molta vivacità per le elezioni».
Siarhei Tsikhanouski, un giornalista indipendente con tre milioni di follower su YouTube, diventato celebre per le critiche al regime, aveva annunciato di voler sfidare Lukashenko alle elezioni. Nel frattempo anche due figure legate all’establishment, l’ex banchiere Viktor Babariko e Valery Tsepkalo, ex ambasciatore bielorusso a Washington, avevano deciso di candidarsi, prendendo le distanze dal regime. Queste candidature erano state assolutamente inaspettate», ricorda Marina. Dopo 26 anni, i cittadini bielorussi avevano iniziato a vedere un’alternativa possibile.
La risposta di Lukashenko però non era tardata. Secondo Vyasna, la principale organizzazione per i diritti umani in Bielorussia, circa 1500 persone sono state arrestate nei tre mesi precedenti alla giornata elettorale, il 9 agosto 2020. Tra questi, anche Babariko e Tsikhanouski che, da allora, sono stati condannati rispettivamente a 14 e 18 anni di detenzione. Tsepkalo è stato costretto a lasciare il paese dopo che le autorità avevano minacciato di privarlo della custodia dei figli.
Nonostante la repressione violenta, a differenza delle elezioni precedenti, Lukashenko non era riuscito a silenziare l’opposizione semplicemente arrestando i propri rivali. Tre donne si erano fatte avanti formando una nuova opposizione. La moglie di Tsepkalo, Veronika e un membro della campagna di Barbariko, Maria Kolesnikova avevano unito le proprie campagne e le proprie forze per sostenere la moglie di Tsikhanouski, Sviatlana. Insieme, le tre donne avevano incarnato la sete di cambiamento nel paese e Sviatlana Tsikhanouskaya ne era diventata il volto. Sfidando il rischio di essere arrestati e perseguitati, migliaia di cittadini bielorussi si erano presentati ai suoi raduni, esprimendo un rinnovato desiderio democratico. Quando finalmente era riuscita a rientrare in Bielorussia, Marina aveva trovato un clima diverso. «C’era la sensazione che le cose potessero davvero cambiare», spiega.
Insieme a molti altri, lei e suo marito si erano offerti come volontari per monitorare i voti nel seggio del quartiere. Mentre l’Ufficio delle Istituzioni democratiche e dei diritti Umani dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) aveva annunciato che, per la prima volta, non avrebbe monitorato le elezioni, citando la mancanza di un invito tempestivo da parte del governo bielorusso, i cittadini avevano deciso di attrezzarsi frequentando corsi online e organizzando gruppi locali di osservatori indipendenti. Nel frattempo, alcune organizzazioni della società civile avevano lanciato siti web di monitoraggio dei voti.
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Il 9 agosto 2020, giorno delle elezioni, in decine di migliaia avevano aspettato per ore in fila il proprio turno per poter votare. In molti casi, i sostenitori di Sviatlana Tsikhanouskaya si erano presentati alle urne mostrandosi ben visibili, indossando braccialetti bianchi e piegando la scheda elettorale a fisarmonica, un segno distintivo per facilitare il conteggio dei loro voti e contrastare la retorica del regime. Il governo era intervenuto rapidamente, bloccando internet, minacciando gli osservatori indipendenti e impedendo loro l’accesso alle urne.
«Ci eravamo preparati», spiega Marina. «Avevamo lasciato le chiavi di casa a un’amica che si sarebbe occupata dei gatti, nel caso ci avessero arrestato». Nonostante fosse consapevole del rischio, Marina rimaneva fiduciosa. Il giorno delle elezioni era anche l’anniversario in cui aveva conosciuto suo marito. «Pensavo fosse un buon segno», ricorda.
Come molti altri osservatori, anche Marina aveva notato diverse irregolarità , tra cui il conteggio sbagliato dei votanti, con i responsabili del seggio che avevano dichiarato un numero di voti diverso da quello reale. «Un modo per gonfiare le schede a supporto di Lukashenko», spiega. Non c’era nessuno però a cui riportare le anomalie. Alla chiusura delle urne, gli scrutinatori erano stati scortati dalla polizia fuori dal seggio e gli agenti avevano minacciato Marina e suo marito di arrestarli se non si fossero allontanati.
Alle nove di sera, quando il Comitato elettorale centrale aveva annunciato i risultati preliminari, che davano a Lukashenko la vittoria con oltre l’80% dei voti, la coppia era scesa in piazza, insieme ad altre migliaia di concittadini, per protestare contro un’elezione che erano sicuri fosse stata rubata (Il rapporto di Osce ha confermato l’evidente frode elettorale. L’Unione europea e gli Stati uniti non hanno riconosciuto il risultato delle elezioni).
La repressione era stata brutale. Marina e suo marito erano scappati a casa, quando la polizia aveva iniziato a sparare gas lacrimogeni, granate assordanti e pallottole di gomma direttamente sui manifestanti. Secondo ByPol, un’organizzazione fondata da ex agenti della polizia bielorussa, apertamente schierata contro il regime di Lukashenko, tra il 9 e il 26 agosto 2020, a Minsk, 1.141 persone erano state ferite durante le proteste, gli arresti e le detenzioni.
La sera delle elezioni era iniziata anche una campagna sistematica di arresti arbitrari organizzata ad arte per annientare il movimento pro-democratico. Tra il 9 e il 12 agosto, 6.700 cittadine e cittadini bielorussi sono stati arrestati e diversi migliaia sono stati picchiati e torturati durante la detenzione, sottoposti alla privazione di cibo, acqua e assistenza medica, ad abusi sessuali, a minacce di stupro e a shock elettrici.
Il giorno successivo, il 10 agosto 2020, il centro di Minsk era occupato dalla polizia e ogni civile rappresentava un bersaglio. «Dalle finestre del nostro appartamento riuscivamo a vedere tutto», spiega Marina. «C’erano così tanti poliziotti antisommossa, che avevamo deciso di aspettare a uscire». Per essere arrestati, infatti, non era necessario partecipare a una manifestazione pubblica, bastava semplicemente camminare per strada. Le persone venivano arrestate mentre andavano al lavoro, a scuola, o al supermercato.
Alle dieci di sera, Marina e suo marito si erano avventurati fuori. L’idea era quella di fare un giro in auto per Minsk e vedere com’era la situazione. Non avevano fatto in tempo a mettere in moto l’auto che un gruppo di poliziotti si erano avventati su di loro, li avevano trascinati fuori dall’auto e trasportati in una strada del centro dove la polizia aveva radunato decine di civili, come loro. «C’erano così tanti ragazzi e uomini, tutti costretti a rimanere in ginocchio», racconta. Qui entrambi erano stati picchiati. Più tardi, Marina, suo marito e le decine di persone detenute dalla polizia erano state costrette su una camionetta e trasportate nel carcere di Okrestina, una strada vicino al centro di Minsk.
Nei giorni successivi, Okrestina sarebbe diventata il simbolo della violenza di stato. Marina era stata rinchiusa in una cella per 4 persone, insieme ad altre 52 donne. «Non c’era aria per respirare», ricorda. «Non c’era cibo, non c’era acqua e non c’erano informazioni». Di notte le donne nella cella di Marina sentivano le urla degli uomini picchiati e torturati nel cortile della prigione. «Avevo sempre paura di riconoscere la voce di mio marito», racconta Marina. «Pensavo ai miei genitori, a quanto dovessero essere preoccupati. Non sapevano neanche se fossi viva». Come migliaia di altri detenuti, a Marina non era stato permesso né di telefonare a casa, né di accedere a un avvocato. Per le loro famiglie e i loro amici, le persone arrestate in quei giorni erano letteralmente scomparse.
La stessa notte in cui Marina era stata portata a Okrestina, Svitlana Tsikanouskaya era stata arrestata per tre ore e, alla fine, obbligata a lasciare il paese. Da allora Tsikanouskaya è in esilio in Lituania, da dove continua il suo lavoro politico, cercando di tenere i riflettori puntati sulle violazioni di diritti umani da parte del regime.
Nonostante anche la stampa internazionale fosse stata spinta fuori dalla Bielorussia, le notizie della brutale repressione post-elettorale avevano fatto il giro del mondo. Secondo un rapporto di Osce dell’Ottobre 2020, le accuse di tortura e di altri gravi violazioni dei diritti umani nel paese erano «diffusissime e sistematiche e provate oltre ogni dubbio». Per l’Europa non era più possibile fare finta di niente. Da ottobre 2020 a oggi, l’Ue ha imposto cinque pacchetti di sanzioni, dirette a 183 individui e 26 organizzazioni legate al regime di Lukashenko. In questo anno e mezzo, però, queste misure non hanno intimidito «l’ultimo dittatore d’Europa».
I cittadini bielorussi hanno sporto 4.644 denunce di tortura e di altri abusi perpetrati dalla polizia dopo le elezioni. Prevedibilmente, nessuna indagine è stata aperta nei confronti delle forze dell’ordine. «Se la polizia pensa di non essere più protetta, c’è il rischio che smettano di seguire gli ordini», spiega Dzehtsiarou. Un pericolo che Lukashenko aveva ben presente: poco dopo le elezioni, aveva personalmente insignito di medaglie presidenziali circa 300 poliziotti, congratulandosi per il loro «servizio straordinario».”
Marina era stata scarcerata dopo tre giorni. Come molti altri detenuti, era stata costretta a firmare un documento nel quale dichiarava che non avrebbe più partecipato a manifestazioni pubbliche, la violazione avrebbe comportato una nuova reclusione. La sera stessa aveva ritrovato suo marito, anche lui appena rilasciato. Il sollievo era durato poco. Okrestina aveva lasciato il segno. «Avevo paura anche di camminare per strada», spiega. «Non riuscivo a dormire, quando mi addormentavo avevo gli incubi». Dopo la scarcerazione, Marina non era più scesa in piazza. Due mesi dopo, suo padre, già malato da tempo, era morto di infarto. «Ho paura che sia stata tutta la preoccupazione del mio arresto», dice. «Mi sentivo in colpa per aver provato a combattere il sistema e poi mi sono sentita in colpa per aver smesso di farlo. Anche per mio padre. Lui voleva la libertà».
Marina non è stata l’unica a ridurre l’impegno politico. Le proteste erano continuate fino alla fine dell’autunno 2020 ma, piano piano, gli arresti di massa, le torture e le minacce, avevano spinto il movimento pro-democratico ad abbassare la voce. Da agosto 2020 a oggi, sono stati arrestati più di 35mila bielorussi con accuse legate ad attività pro-democratiche.
Nonostante il basso profilo, quasi un anno dopo le elezioni, alla fine di luglio 2021, Marina era stata arrestata di nuovo, con l’accusa di aver contribuito a un «piano terroristico», un capo d’imputazione a cui sono stati sottoposti moltissimi cittadini attivi nel movimento pro-democratico. Il procuratore generale bielorusso ha dichiarato che più di 1.600 persone sono state arrestate per «estremismo e terrorismo», nell’ultimo anno e mezzo. Secondo gli attivisti per i diritti umani, gran parte di questi casi hanno motivazioni politiche.
Questa seconda volta, Marina era rimasta nella prigione di Okrestina per 15 giorni. Agenti del Kgb l’avevano minacciata: «Hai già fatto morire di preoccupazione tuo padre con il tuo arresto, non vorrai far morire anche tua madre». Una volta scarcerata lei e suo marito erano immediatamente scappati in Ucraina. «Ho dovuto lasciare mia madre», spiega. «È anziana, malata e non può viaggiare. Ci sentiamo tutti i giorni con le videochiamate. Sappiamo che forse non ci rivedremo mai più di persona, ma non abbiamo scelta».
Si stima che siano decine di migliaia le persone che, come Marina, sono scappate dalla Bielorussia nell’ultimo anno e mezzo. Moltissimi in Lituania, Ucraina, Lettonia, Polonia, Georgia e Russia. Olga Dobrovolska, un’avvocata bielorussa esperta di immigrazione, spiega che è impossibile ottenere dati precisi. «Le persone scappano con o senza passaporto», dice. La fuga di massa però è così diffusa che, lo scorso maggio, una rete di avvocati e organizzazioni per i diritti umani, ha presentato un caso alla Corte Internazionale dell’Aia, contestando al regime di Lukashenko i crimini contro l’umanità di deportazione forzata e persecuzione.
Nemmeno sul piano internazionale, Lukashenko ha mostrato segni di ridimensionamento. Anzi, nell’ultimo anno e mezzo, «l’ultimo dittatore d’Europa» ha fatto di tutto per affermare il proprio potere ben oltre i propri confini nazionali.
A maggio 2021, il regime ha dirottato un aereo Ryanair, in viaggio da Atene a Vilnius, in Lituania, per arrestare il blogger dissidente Raman Pratasevitch. Un altro attivista bielorusso, Vitaly Shishov, a capo di Belarusian House, l’organizzazione che si occupava di accogliere rifugiati bielorussi in Ucraina, è stato trovato impiccato a un albero a Kiev, una morte molto sospetta, secondo la polizia ucraina, che ha iniziato un’indagine per omicidio mascherato da suicidio. Negli ultimi mesi, sfruttando le politiche europee anti-migratorie, il regime ha favorito l’arrivo di migliaia di profughi al confine con la Polonia e la Lituania, per molti una rappresaglia contro le sanzioni Ue.
Durante tutto questo periodo, ostracizzato dall’Unione europea e dagli Stati uniti, Lukashenko ha potuto contare su un grande alleato: Putin.
Un mese dopo le elezioni, Putin aveva promesso a Lukashenko 1.5 miliardi di dollari, offrendo, tra l’altro, di schierare l’esercito in Russia, al confine con la Bielorussia, così da catturare eventuali dissidenti in fuga. Una strategia per portare Minsk sotto il controllo di Mosca. Dopo anni di stasi, i lavori per l’implementazione dell’«Unione di Russia e Bielorussia» hanno subito una rapidissima accelerazione nell’ultimo anno e mezzo.
A settembre 2021, mentre Mosca prometteva un ulteriore prestito di $630 milioni al regime bielorusso, Putin e Lukashenko concordavano l’approvazione di oltre venti iniziative per l’unione economica dei due paesi. Nel frattempo, sempre nello stesso mese, durante Zapad-2021, un’esercitazione militare periodica che ha coinvolto 200mila soldati russi e bielorussi, tenutasi in Bielorussia, Lukashenko aveva commentato: «Abbiamo di fatto un unico esercito, con le truppe bielorusse che formano la spina dorsale in direzione occidentale».
Una manciata di mesi dopo, in previsione dell’invasione dell’Ucraina, Putin aveva schierato decine di migliaia di truppe in Bielorussia, con l’approvazione di Lukashenko. «È un patto faustiano quello che Lukashenko ha stipulato con Putin, in cambio di protezione», spiega Alex Prezanti, avvocato specializzato in diritti umani, tra coloro che hanno presentato il caso contro il regime bielorusso alla Corte Internazionale dell’Aia. «(Lukashenko) È rimasto dittatore solo sulla carta».
In molti concordano con questa analisi. «Ci sembra che Lukashenko non sia più in controllo del nostro esercito, l’unica cosa che sta controllando è la repressione dei Bielorussi», ha dichiarato al Guardian Sviatlana Tsikanouskaya. «Stiamo vedendo dei segni di occupazione militare in Bielorussia».
Il 27 febbraio scorso, durante un referendum costituzionale che ha finito per rafforzare ulteriormente il regime e garantire a Lukashenko la rielezione fino al 2035, centinaia di bielorussi sono scesi coraggiosamente nelle strade del paese per protestare contro l’invasione in Ucraina. Secondo Hanna Liubakova, giornalista bielorussa e fellow all’Atlantic Council, quasi mille persone sono state arrestate per aver preso parte alle manifestazioni. Diverse persone sarebbero state picchiate e torturate.
In moltissimi continuano a scappare dalla Bielorussia. «A Tbilisi, c’è mezza Minsk», spiega un’attivista bielorussa scappata in Georgia, che ha chiesto di rimanere anonima, per paura di ritorsioni da parte del regime. «All’inizio siamo stati accolti, ma quando è scoppiata la guerra le cose sono cambiate. I bielorussi e i russi sono visti come gli invasori», continua. «Ho paura di parlare russo per strada, cerchiamo di uscire il meno possibile. Ma se siamo qui, è perché siamo scappati dal regime».
Moltissimi bielorussi, come Marina, avevano cercato rifugio in Ucraina e adesso sono stati costretti a scappare di nuovo. «All’inizio non credevo che avrebbero invaso, non pensavo che fosse possibile», racconta. «Mia madre era molto preoccupata. Continuava a dirmi: lasciate l’Ucraina». Il visto stava per scadere e la situazione era delicata. Marina e suo marito hanno fatto le valigie, preparato i loro documenti, quelli dei loro tre gatti e si sono rimessi in viaggio, questa volta per la Polonia. «Avevo perso la mia casa, ne avevo trovato un’altra e ho perso anche quella», continua. «Quando sono arrivata qui, non riuscivo a fare niente, piangevo solo».
Quando la Russia ha lanciato l’attacco, però Marina si è subito mobilitata. Ha guidato fino al confine per aiutare i civili in fuga. Lei e suo marito hanno appena trovato un nuovo appartamento in affitto e adesso ospitano due rifugiati: un ucraino e un bielorusso che, come loro, aveva sperato di trovare un luogo sicuro in Ucraina. «Noi abbiamo avuto una guerra per un anno e mezzo. Ci hanno arrestati tutti, nessuno ci ha aiutato», racconta. «Io voglio aiutare come posso. Voglio lottare, per i bielorussi e anche per gli ucraini».
Marina è anche tornata in piazza, questa volta a manifestare per la pace in Ucraina. Ma scendere in strada e dare voce alle proprie opinioni politiche in un paese che non è la Bielorussia per lei è una sensazione strana: «Non è la stessa cosa, qui le persone sono al sicuro», dice. «Vorrei poter tornare a manifestare nel mio paese».
*Ottavia Spaggiari è una giornalista freelance e reporter fellow all’Alicia Patterson Foundation. I suoi articoli sono apparsi su The Guardian, Slate, The New Yorker. Questo articolo è stato realizzato grazie al sostegno dell’International Women’s Media Foundation e di Journalismfund.eu